Possibilità e limiti della dieta
Vi è una generale concordia nel ritenere che una corretta alimentazione rappresenti il cardine della terapia dell’ipercolesterolemia, che molto spesso si accompagna a obesità. infatti la semplice restrizione calorica e il ritorno a un peso desiderabile sono in grado di correggere l’aumento del colesterolo. Ma come si stabilisce il peso ideale che deve costituire il fine ultimo di una dieta? Esiste per questo un parametro che viene definito “indice di Massa Corporea” (IMC). Ma come si calcola il proprio IMC? L’indice si ricava dividendo il peso corporeo della persona per la sua altezza, espressa in metri, al quadrato. Prendiamo l’esempio di un uomo alto 1,70 m che pesa 70 kg: dal suo peso, 70, diviso la sua altezza al quadrato (1,7 x 1,7 = 2,89), si ottiene il valore 24,2, che, alla luce dei parametri IMC risulta “normale”. Per la maggior parte dei pazienti con obesità lieve-media (fino a 30-40% di sovrappeso), sono indicate diete ipocaloriche da 1000-1300 calorie giornaliere. Solo per pazienti con obesità grave (IMC > 35) è necessario un regime dietetico più drastico. Lo scopo, per tutti, è di avvicinarsi il più possibile al peso ideale, cioè a quel peso corporeo che non si associa ad alterazioni met al ailiche e che corrisponde invece a una maggiore aspettativa di vita. Per ottenere risultati soddisfacenti basta poco: un calo ponderale di soli 5 kg determina una soluzione all’incirca dell'” del colesterolo totale. Se i grassi nel sangue sono alti (iperlipidemia) l’arma fondamentale per ridurli è la messa in atto di una adeguata dieta: si deve assolutamente ridurre la quota di acidi grassi saturi a meno del 10% delle calorie totali. La riduzione degli acidi grassi saturi nella propria dieta quotidiana dovrebbe essere sempre bilanciata dall’aumento degli acidi grassi insaturi, che invece esercitano un’azione contrastante nei confronti dello sviluppo della placca aterosclerotica.
Il pesce azzurro e i trigliceridi
In questi ultimi anni si è molto parlato e scritto degli acidi grassi omega-3, che sono stati definiti “antiossidanti spazzini in grado di ripulire le arterie”. Si tratta di acidi grassi poliinsaturi (in cui cioè i doppi legami sono più di uno) a 18 o più atomi di carbonio (il termine “omega-3” deriva dalla simulata chimica, che vede il primo doppio legame in posizione 3 della catena di atomi di carbonio). Queste sostanze, presenti in abbondanza nel pesce azzurro che vive nei mari più freddi — come il salmone, la sardina, l’aringa, il merluzzo e lo sgombro —, svolgono un’azione antitrombotica (cioè contrastano la formazione del trombo, quel tappo così pericoloso se si forma improvvisamente dentro una coronaria), riducono i livelli di trigliceridi nel sangue e prevengono le aritmie cardiache. E’ noto da tempo che tra le popolazioni eschimesi vi è una minore incidenza di infarti. Tale dato è stato ricondotto alla dieta particolarmente ricca di pesce delle caste della Groenlandia. Sulla base di questa e di altre osservazioni non testate in studi scientifici, in questi ultimi anni si sono svolte ricerche molto importanti per accertare se un incremento di consumo di acidi grassi poliinsaturi omega-3 riduca il rischio di sviluppare un primo infarto o prevenga un secondo evento nei sog-getti già infartuati. Allo stato attuale delle conoscenze possiamo formulare le seguenti considerazioni. Vi è una buona evidenza che l’aggiunta alla dieta di un grammo al giorno di omega-3 riduca in modo significativo il rischio di avere un secondo infarto. Questo convincimento è basato soprattutto sulle conclusioni di un importante studio italiano, il GISSI Prevenzione, che è stato condotto dal 1993 al 1998 su oltre 11.000 pazienti dimessi con diagnosi di infarto cardiaco. Si è dimostrato inflitti che, a integrazione di una dieta corretta, la somministrazione giornaliera di un grammo di acidi grassi poliinsaturi omega-3 determina una riduzione considerevole del rischio di morte. Parliamo di una riduzione del 20% della mortalità totale e del 45% del rischio di morte improvvisamente dovuta ad aritmie ventricolari fatali. Questo dimezzamento del rischio è verosimilmente proporzionato a un effetto antiaritmico degli omega-3; di contro, non vi è un’evidenza altrettanto forte che gli omega-3 prevengano l’infarto in chi non lo ha mai avuto. L’ipotesi che l’assunzione di acidi grassi potesse determinare un aumento dei tumori a causa della maggiore esposizione del pesce a inquinanti come diossine e metilmercurio, non ha trovato conferma. Possiamo quindi concludere che, per le persone sane, che non hanno mai avuto problemi coronarici, è consigliabile consumare pesce azzurro almeno due volte la settimana per assicurarsi mezzo grammo al giorno di omega-3, anche se non c’è una forte evidenza scientifica che questo prevenga l’infarto. Chi invece ha già avuto incidenti cardiovascolari è opportuno che consumi pesce azzurro sempre due volte la settimana, ma con l’aggiunta di integratori farmacologici a base di omega-3, così da arrivare a un totale di un grammo al giorno di questo grasso “amico”: in questo caso vi è una forte evidenza scientifica che questa pratica, unita al resto della terapia medica prescritta, riduca nettamente il rischio di re-infarto. Tra le varie tipologie di pesce azzurro, le sardine sono in assoluto le più ricche di omega-3; questa specie ittica è molto economica ma è poco gettonata nella nostra penisola, probabilmente perché considerata “povera” e pertanto poco alla moda su gran palle delle nostre tavole. Dunque, la ricetta per ridurre notevolmente il rischio di infarto, da quanto emerso finora, seminerebbe semplice: non fumare, cercare di mantenere il peso ideale, avere il colesterolo nella norma, mangiare molto pesce (possibilmente azzurro), poca carne rossa, poche uova, e non eccedere nel latte e nei formaggi. In realtà la partita che ogni giorno milioni di persone giocano è difficilissima: l’obesità nel mondo occidentale sta assumendo le dimensioni di una malattia epidemica. D’altronde la spinta del consumismo in tal senso è evidente. Altrettanto evidente è la difficoltà di dimagrire e, ancora più difficile, mantenere nel tempo i risultati eventualmente ottenuti.